mercoledì 29 novembre 2017

[Dal libro che sto leggendo] Gli illuminati


Antoine Bello
Fonte: Wikipedia

Come già successo in passato per altri libri facenti parte di duologie o trilogie etc, mi corre l'obbligo informare il lettore passa di qui che quello di oggi è il secondo libro di una duologia. Potrebbe anche essere letto singolarmente ma, nella descrizione sommaria che segue o nello stralcio del primo capitolo del libro, anche se a me non sembra, potrebbero essere presenti degli spoiler. Del precedente libro, "I Falsificatori" ho parlato in una recensione e  l'anteprima è stata inserita nel post del [Dal libro che sto leggendo] relativo al libro stesso.

Se "l'amico di Murakami", alias appioppato ad un amico che non vuole essere citato, non fosse a fare una visita e quindi avesse tempo di guardare quel che pubblico oggi, scuoterebbe la testa sconsolato. Non ama che io legge e nemmeno che parli di libri del genere. Questo perché, quello che penalizza questa duologia è un po' la descrizione che viene fatta in sinossi e un po' la percezione che si ha di certe storie similari che girano in libreria. Quindi chiariamo subito: non è un romanzo da "complottisti". Bisogna leggerlo con la leggerezza dell'ipotesi, e, no, quelle di Dan Brown non erano ipotesi ma leggende mal riferite, e che è ben inserita in una architettura complessa di due romazi che scorrono la vita di Sliv sempre di pari passo con la storia reale, dalla fine degli anni '90 del novecento fino al 2000 inoltrato.

E' la storia di Sliv giovane irlandese che un giorno, rispondendo ad un annuncio, entra in contatto con l'uomo che lo recluterà per un ente che si occupa di rivedere quelle che sono le notizie e la storia mondiale, integrandola, creandola o cancellandola per scopi non ben definiti. Nella carriera all'interno del CFR gli agenti operano di comune accordo e ognuno per le proprie competenze. Il problema per Sliv è capire lo scopo di certe falsificazioni e chi si nasconde dietro al CFR. 

Il bello di questa ipotesi è. innanzitutto, che è ben scritta, scorre bene e poi che è basata su uno dei mali della contemporaneità: la dimenticanza. Noi siamo portati a dimenticare l'esattezza o anche a ignorare l'esistenza dei fatti per due motivi principali: l'enorme cumulo di informazioni che ci travolgono ogni giorno e internet. Con l'avvento della globalizzazione quello che era già prima complicato da seguire, oggi, diventa ancor più complesso perché, ogni giorno, nel mondo avvengono e si scrivono un sacco di fatti diversi che si sovrappongono e che fanno sparire quelli già descritti un secondo prima del loro avvento. Il fatto che, ipoteticamente, si possa far perno su questo difetto comune è plausibile ma, di certo, molto più complesso di come lo descrive Bello anche se, nella sua storia, cerca di pensare a tutte le varie possibilità per renderlo il più verosimile possibile. All'inizio di questo secondo libro è presente un riassunto del precedente che non rende la lettura de "I Falsificatori" necessaria ma è così piacevole da leggere che sarebbe un peccato ignorarla.

Buone letture,
Simona Scravaglieri

UNO 

Come ogni volta che spingevo la pesante porta vetrata dello studio Baldur, Furuset & Thorberg, meditai brevemente sulla piega che la mia vita aveva rischiato di prendere dieci anni prima, quando avevo risposto ad un annuncio per un posto di capo progetto nel settore degli studi ambientali. Se il direttore delle operazioni, Gunnar Eriksson, che mi aveva assunto, non avesse scorto in me la predisposizione a un altro tipo di attività, forse da quel giorno avrei dovuto occuparmi di quantificare i rischi di inquinamento fluviale derivanti dalla costruzione di un inceneritore nella periferia di Copenaghen.
La receptionist, intenta a dare informazioni a un fattorino, mi salutò con un sorriso. Credendomi un consulente freelance che collaborava occasionalmente con lo studio, non si stupiva né delle mie lunghe assenze e né dei miei orari strani. Quella copertura, che io e Gunnar avevamo ideato quando ero uscito dall'Accademia, era pienamente soddisfacente: placava la curiosità del fisco irlandese e spiegava i miei spostamenti ai quattro angoli della Terra.
«Sliv, finalmente!», esclamò Gunnar abbracciandomi calorosamente. «Temevo avessi perso il nostro indirizzo. Quanto tempo è passato dall'ultima visita?».
Il tono della sua domanda era troppo ironico per essere del tutto innocente. Kristin la moglie di Gunnar era morta un anno prima per un'embolia polmonare. Gunnare era assolutamente preparato alla sua improvvisa scomparsa e aveva accusato il colpo. I suoi figli erano i tredici agenti che aveva reclutato nel corso della sua carriera. Poiché io ero, al tempo stesso, quello più vicino e l'unico che vivesse ancora a Reykiavíc, andavo a trovarlo almeno una volta alla settimana, tranne ovviamente quando ero in missione all'estero.
«Troppo», sospirai. «Vengo da Sydney: sono atterrato stamattina. Prima sono stato a Londra, Torornto e Los Angeles».
«Pazzesco», borbottò Gunnar. «Bisogna che faccia un discorsetto a Yakoub. Se continui così, rischi di rovinarti la salute».
Sapevamo entrambi che non avrebbe fatto nulla del genere. Le Operazioni speciali contavano sì e no un centinaio di agenti e avevano bisogno del contributo di ciascuno. Del resto, le mie sporadiche rimostranze non ingannavano nessuno, tanto meno Gunnar: adoravo la mia vita di agente di classe 3 e non l'avrei cambiata per niente al mondo.

Questo pezzo è tratto da:

Gli illuminati
Antoine Bello
Fazi Editore, ed .2010
Traduzione a cura di Lisa Crea
Prezzo 19,50€

mercoledì 22 novembre 2017

[Dal libro che sto leggendo] Shakespeare and company


L'edizione del 1922 dell' Ulisse di James Joyce
Fonte: Non Solus blog


Comincia così questo libro, come una raccolta di piccole immagini di una vita di una famiglia normale. Aneddoti divertenti e divertiti di una figlia che ricorda "mamma e papà" con i loro pregi e difetti, che commenta le leggende di famiglia e ricorda la prima volta che ha visto Parigi. Un periodo decisamente importante per la nostra Sylvia che rimarrà contagiata dallo spirito parigino d'avventura e di curiosità verso qualsiasi novità. Spirito che rimarrà intatto per quasi mezzo secolo fino alla fine della seconda guerra mondiale. Eppure Sylvia, nono solo non dimenticherà quel brivido degli incontri domenicali con gli studenti americani a Montparnasse ma anzi, perpetrerà quella ansia di guardare oltre,  con la sua piccola libreria a ricordata storicamente per la sua seconda sede, e non quella della sua prima apertura, a Rue de l'Odèon.

La via che volge le spalle al quartiere latino, che sbircia dietro la sagoma dell'omonimo teatro le rive della Senna e che tanto ha dato agli artisti dei primi del novecento diventò il fulcro del laboratorio letterario del momento. Apollinaire sta a La maison des amis des livres come Joyce sta a Shakespeare and Company. Se adrienne riusciva a fomentare i movimenti francesi e spagnoli a Sylvia non rimaneva che sovvenzionare quelli americani e anglofoni. Fra gli esponenti, oltre a Joyce troviamo anche un giovane di belle speranze che usava sostare, leggendo il giornale, con il figlioletto in libreria. Era Ernest Hemingway. Lo stesso che, con la divisa da ufficiale alla riconquista di Parigi si precipita a verificare se Sylvia sta ancora bene.

Rue de l'Odèon e le sue due librerie formano non solo un rifugio e uno spazio per gli artisti che vi si vogliano provare ma sono anche un trampolino di lancio per le nuove tendenze che verranno. E alla base di questo formale impegno, non può non essere inserita la prima e unica, non per stampa ma per presenza in catalogo, opera pubblicata da Sylvia con la casa editrice da lei fondata con lo stesso nome della sua libreria: l'Ulisse di Joyce. All'interno di questo libro c'è un po' di tutto: alcune cose in maniera maggiore e altre appena accennate. Tutto sta a farsi coinvolgere e trascinare come dicevo nella recensione.

Buone letture,
Simona Scravaglieri



BALTIMORA, PARIGI, PRINCETON 

Mio padre, il reverendo Sylvester Woodbridge Beach, dottore in teologia, era un ministro del culto presbiteriano che per diciassette anni fu pastore della prima chiesa presbiteriana di Princeton, nel New Jersey.
A prestar fede a un articolo apparso nel "Munsey's" Magazine sui più curiosi alberi genealogici d'America, i Woodbridge, antenati di papà dal lato materno, si sarebbero tramandati di padre in figlio il ministero sacerdotale per dodici o tredici generazioni. Mia sorella Holly, che vuole la verità a qualsiasi costo, ha preteso di vederci chiaro e, ahimè, ha sfatato la leggenda  riducendo il numero a nove; e tanto dobbiamo accontentarci.
Come certi personaggi mitologici mia madre, una Orbison, scaturisce da una fonte. Cioè, un certo suo antenato, il capitano James Harris, zappettando nel cortile dietro casa, scoperse una magnifica sorgente e fondò in quel punto la città di Bellefonte negli Allengheny; fu la signoa Harris a pensare al nome. Io però preferisco un'altra storia, che la mamma mi raccontava spesso, secondo la quale Lafayette, fermatosi a chiedere un sorso d'acqua della nostra fonte, avrebbe esclamato: "Belle fontaine!". Benché sia improbabile che un francese si fermi a chiedere un bicchier d'acqua.
La mamma nacque non nella sua città fra i monti della Pennsylvania, ma a Rawalpindi, in India, dove suo padre era missionario medico. Poi nonno riportò la famiglia a Bellefonte, dove la vedova allevò i quattro figliuoli e trascorse tutto il resto della vita, finendo i suoi giorni venerata poco meno della storica sorgente.
La mamma frequentava l'accademia di Bellefonte, dove aveva per insegnante di latino un bel giovanotto alto, appena uscito dal college e dal seminario teologico di Princeton, Sylvetser Woodbridge Beach. Lei aveva solo sedici anni. Si fidanzarono, ma aspettarono due anni a sposarsi.
Papà fu chiamato a esercitare il ministero prima a Baltimora, dove nacqui io, poi a Bridgeton, nel New Jersey, dove f pastore della prima chiesa presbiteriana per dodici anni.
Avevo circa quattordici anni quando papà portò a Parigi tutta a famiglia: la mamma, le mie due sorelle minori, Holly e Cyprian e me. Gli avevano chiesto di occuparsi di quelle che venivano chiamate le Riunioni dell'Atelier degli Studenti: non esisteva ancora il bellissimo club degli studenti americani di Boulevard Raspail. La domenica sera gli studenti americani si ritrovavano fra compatrioti in un grande studio a Montparnasse, dove papà faceva un discorsetto e alcuni fra i cantanti più in vista del momento, come Mary Garden e Charles Clark, il grande violoncellista Pablo Casals e altri artisti intrattenevano brillantemente il pubblico.   Venne persino Löre Fuller: ma non a  danzare, bensì a parlare delle sue danze. La ricordo come una ragazza piuttosto tarchiata e non bella, con un paio d'occhiali che la facevano somigliare a una maestrina. Ci parlò degli esperimenti che stava facendo con il radium, per i suoi giochi di luce. In quel tempo danzava al Moulin Rouge e aveva molto successo. Vedendola laggiù, non avreste più riconosciuto la robusta ragazzotta di Chicago. Con due bastoncelli si faceva volteggiare intorno, cinquecento metri di stoffa turbinante, fiamme la avvolgevano e la consumavano, finché di lei non rimaneva che un mucchietto di ceneri.
Papà e mamma amavano la Francia e i francesi, benché di questi ultimi ne conoscessimo pochi a causa del lavoro di papà, che ci faceva vivere soprattutto a contato con i nostri compatrioti. Specialmente papà se la diceva bene con la gente del nostro paese d'adozione; in fondo al cuore, penso, doveva essere proprio un latino. Fece di tutto per imparare la lingua. Un suo amico deputato gli diede delle lezioni, mettendolo ben presto in grado di leggere e scrivere il francese alla perfezione; ma la pronuncia... ahimè, quella era un'altra faccenda. Dalla stanza accanto sentivamo papà e il suo amico alle prese con la "u" francese; prima si udiva quella strettissima "u" del deputato, e subito dopo quella inguaribilmente larghissima di papà, pronunciata con un volume di voce ogni volta maggiore, ma sempre altrettanto lontana del modello. Non migliorò mai.


Questo pezzo è tratto da:

Shakespeare and Company
Sylvia Beach
Edizioni Sylvestre Bonnard, ed. 2004
Traduzione a cura di Elena Spagnol Vaccari
Collana "Il piacere di leggere"
Prezzo 26,00€

mercoledì 15 novembre 2017

[Dal libro che sto leggendo] Occhi chiusi spalle al mare

Fonte: Pixturi
E oggi è davvero un libro che sto leggendo, anzi che ho appena iniziato a leggere stamattina. Il libro, uscito ad ottobre, è arrivato ieri e sono passata all'alba a ritirarlo da mia madre e, mentre ero in coda, non ho resistito e l'ho aperto. Mi sono fermata dove ora interrompo questo estratto, che sostituisce quello che era programmato, proprio perché è talmente accattivante che non potevo non farvelo sbirciare! 

Non è la prima volta che parlo e leggo questo autore (19 Dicembre '43) ma confesso che non mi aspettavo che mi attirasse così. E invece la storia Piero parte subito avvolgendo il suo lettore nelle ombre e scandendo il passaggio da una inquadratura e l'altra con il rintocco dell'orologio. In mezzo quel sentore di noir che Cutolo porta con sé naturalmente e che sa distribuire con grande maestria. 

Piero vive al Sud in un posto che è crocevia di storie italiane e di immigrati. Piero è anche uno che ha una sua storia che inizia con un padre distante e autoritario, forse anche troppo ingombrante con la sua pretesa di controllo. Poi una mattina, quel che troviamo alla guida non è il padre, ma Piero. 

Non aggiungo altro perché non credo ci sia da aggiungere nulla in più. Dopo aver letto questo pezzo, forse anche voi darete una chance a Cutolo per stupirvi o farlo nuovamente come ho fatto io. Ci vediamo alla fine del libro... io continuo a leggere!

Buone letture,
Simona Scravaglieri

Uno

Serrande abbassate, finestre socchiuse, il silenzio galleggia fra la penombra delle case e il nero delle strade, avvolge gli oggetti che lo prendono in consegna e lo rilasciano a intermittenza nello spazio circostante. Un viavai muto attraverso spiragli e fessure, posti segreti, un moto che tiene in perfetto equilibrio la quiete delle cinque e ventiquattro del mattino.
Soprammobili, tende, alberi, fontane, tutto sembra sospeso nel tempo.
Dopo aver lavorato al silenzio e in silenzio tutta la notte, ogni cosa ritrae la sua anima in attesa del nuovo giorno. I lampioni si spengono a chiazze e cedono il passo al primo bagliore di un cielo terso.
E' una meravigliosa giornata di fine giugno.
La città dorme.
Un vento leggero sale dal mare portando con sé storie di vite lontane. Granelli di sabbia.
Il sibilo del SUV di Piero è l'unico rumore percepibile nell'aria ovattata delle cinque e venticinque del mattino, un bisturi che incide il silenzio e con esso si fonde. All'interno delle case il suono  arriva attutito quasi impercettibile. Anche l'angolo più remoto e dimenticato sembra pervaso dalla pace.
Ma dentro quel SUV accade qualcosa di diverso.
Il cuore di Piero sferra colpi massicci, a intervalli brevissimi l'uno dall'altro. Tonfi sordi, continui, che nelle sue orecchie assomigliano ai rintocchi di un pendolo.
La tensione è così forte che l'impugnatura stretta di tutte e due le mani sul volante non impedisce agli avambracci di tremare, la muscolatura si contrae a tal punto da provocargli dolore alla spalle, al collo. Una vertigine.
Le pupille compiono movimenti rapidissimi in ogni direzione. Gocce di sudore gli tagliano la fronte e si fermano sugli occhi. Le palpebre, inzuppate, diventano così pesanti che potrebbero chiudersi da un momento all'altro.
Ma sono le cinque e ventisei del mattino.
E, nonostante tutto, Piero arriverà in perfetto orario all'appuntamento più importante della sua vita.

Questo pezzo è tratto da:

Occhi chiusi spalle al mare
Donato Cutolo
Edizioni Spartaco, Ed. 2017
Collana "Dissensi"
Prezzo 13,00€ 

venerdì 10 novembre 2017

"Shakespeare and Company", Sylvia Beach - Dei ruggenti anni '20 parigini...

Parigi 1925 Fotografia di Roger-Viollet
Fonte: Venets

Ci sono storie del passato della letteratura che riescono ad essere, ancora oggi, più affascinanti di quelle inventate per la letteratura. Ci sono persone che hanno fatto per la letteratura internazionale molto più dei patinati autori. Hanno permesso che questa evolvesse e diventasse quello che è oggi, un immenso patrimonio culturale di memorie e di storie che, se lette, ci rendono persone migliori e ci fanno vivere, guardare e ascoltare saltando fra le epoche o vivendo nella fantasia, mille vite diverse. È un concetto un po’ strano detto così, diventa più chiaro se pensiamo all'immedesimazione che avevamo da ragazzini leggendo le gesta dei nostri amati eroi nei fumetti e nei libri illustrati. Ecco molte delle persone che si incrociano nel libro di oggi, avevano lo stesso sguardo trasognato e vivevano i libri, le fascinazioni del linguaggio e degli stili narrativi in maniera talmente totalizzante che, leggendo questo memoir, non si può fare a meno di rimanere coinvolti.

Siamo nella prima metà del ‘900, il periodo di cui parliamo è fra le due guerre fra il 1920 e la fine della seconda guerra mondiale. Il luogo è Parigi. Parigi è quel luogo in cui tutto il mondo che si distacca per convinzione o curiosità, nonché rifiuto delle convenzioni sociali si ritrova. È quel luogo dove in ogni angolo il pullulare delle conversazioni, che ai più sembrano astruse, ti raggiungono e stuzzicano la tua curiosità. Se tendete l’orecchio potreste sentire la voce baritonale di Gertrude Stein che commenta nel suo studio il primo quadro di Picasso che ha acquistato dicendo che la ragazzina rappresentata ha i piedi grossi o sentire Apollinaire e Picasso che parlano impauriti della collezione di oggetti africani che hanno acquistato e la cui provenienza non è così chiara, oppure vi capiterà di osservare un omino minuto con il cappello di paglia e gli occhialini. Ieri spendeva e spandeva, oggi è di nuovo povero, ha una moglie e dei figli e ha vissuto per un certo periodo in Italia, a Trieste per la precisione. Si chiama James ma tutti lo conosceranno e ne parleranno solo come Joyce, cognome che ci fa pensare a quel mastodontico mattone che è l'Ulisse. Ecco, lo troviamo a Parigi perché lì c'è una simpatica e scavezzacollo americana che, supportata dalla amica che fa anche lei la libraia, ha aperto un negozio di libri che poi ha spostato dopo un anno per stare più vicino alla sua Adrienne. L'Adrienne in questione noi la conosciamo già, è Adrienne Monnier, e qui l'abbiamo incontrata con la raccolta degli scritti che ha redatto per varie occasioni nella sua libreria che in Italia si trova sotto il titolo "Rue de l'Odeòn. La libreria che ha fatto il Novecento"(era pubblicato da :duepunti Edizioni). La nostra intrepida americana invece si chiama Sylvia Beach e s'innamora subito del progetto di Joyce e lavora alacremente per pubblicare quello che nessuno mai oserebbe fare con un autore così. E' affascinata dal suo eterno spingersi oltre il linguaggio convenzionale per creare nuovi percorsi comunicazionali.

Parigi non è solo la culla delle arti in quel periodo ma anche di una nuova libertà: il vivere fuori dalle convezioni. Colette aveva divorziato, aveva pubblicato libri scritti in cui campeggiava il suo nome e si era data al teatro facendosi anche un amante giovane, Gertrude Stein viveva con Alice Toklas, compagna da una vita e Sylvia e Adrienne erano molto più che unite da una sola amicizia, eppure il fatto di fare lo stesso lavoro, di vedere alla vita e all'esplorazione dei nuovi mondi letterari come un'opportunità da perseguire, fu un'amplificazione dei sentimenti che le univano così profondamente. Fece sì che quella strada che, prima di giungere sulla Senna doveva passare accanto al teatro, diventasse essa stessa il teatro delle gesta che molti autori, scrittori, architetti, artisti e giornalisti fecero per rendere quella porzione di Novecento magico e che gli sopravvivessero parte delle correnti che diventeranno i pilastri della cultura contemporanea. 

In questo rutilante mondo sono ambientate le memorie di Sylvia e, se pensate al fatto che quello che vi ho presentato è solo la minima parte di quel che smuove l'ambiente parigino, e poi leggere il libro lo troverete un po' sottono. Le descrizione dei metodi alquanto alternativi di Joyce di approcciare alla scrittura e gli aneddoti su di lui e su Hemingway rendono l'idea di quanto fossero uomini e al contempo geni questi artisti. Ce li rende più vicini, ma sebbene abbia dedicato una vita all'Ulisse, della Parigi fuori dal negozio ce n'è davvero poca rispetto ai lasciti della compagna. E' questo il neo di questo libro, che comunque andrebbe letto per avere una conoscenza in "presa diretta" e non solo accademica di Joyce. Perché Joyce, a quanto ci dice Sylvia non è l'Ulisse, è il contrario. Ogni parola scritta è una parola che non era abbastanza per significare il pensiero di colui che scriveva. L'ansia di comunicare una storia al di là della semplice comunicazione sino ad allora conosciuta e utilizzata è la stessa di Picasso alla ricerca del segno grafico unico e schematizzato che racconti la stessa storia. Se, come diceva la Stein, Picasso produceva tanti quadri e si accompagnava con soli scrittori perché in fondo era lui stesso uno scrittore e i suoi quadri pagine di storie, Joyce è uno scrittore pittorico che ha necessità di cesellare il linguaggio per poter tirare fuori tra le mille sfumature del significato quello nuovo, nascosto fino ad oggi ai più.

In questo Sylvia è più che puntuale, quasi una biografa d'eccezione e con un gran talento nella ricostruzione di questo ritratto così particolareggiato da risultare completamente diverso da quelli che si leggono in giro. La scrittura è scorrevole e piacevole, gli eventi sono raccontati in maniera che si susseguano uno dietro l'altro e mantengano il livello di coinvolgimento del lettore sempre alto; non sai mai che ti aspetterà alla pagina successiva eppure lo spirito voyeristico, che sobilla la scrittrice e che non sapevi di avere, ti porta a continuare a leggere per vedere che succederà ancora. Un libro bello, tutto sommato, anche se con questo neo di una occasione in parte persa perché, giusto da questi resoconti, abbiamo l'opportunità di tornare in quegli anni e continuare a sbirciare fra le strade di una città come nasce un nuovo mondo, quello che oggi abitiamo ma che non possiamo, perdendo la memoria, imparare ad apprezzare fino in fondo.

p.s.: L'originale libreria Shakespeare&Company è quella di Sylvia e non l'attuale. Venne chiusa all'inizio della guerra e Sylvia andò a lavorare con Adrienne a la "Maison des amis des livres" che invece rimase aperta anche durante tutto il periodo bellico. L'attuale Shakespeare&Co, ex Mistral, prese questo nome alla morte della Beach in suo ricordo.

Buone letture,
Simona Scravaglieri


Shakespeare and Company
Sylvia Beach
Edizioni Sylvestre Bonnard, ed. 2004
Traduzione a cura di Elena Spagnol Vaccari
Collana "Il piacere di leggere"
Prezzo 26,00€



mercoledì 8 novembre 2017

[Dal libro che sto leggendo] La lotteria

Fonte: Today found out


E' difficile parlare del libro di oggi non perché sia complicato ma perché è semplicissimo. E' la trasposizione su carta di quanto possa essere perfettamente agghiacciante la semplicità della realtà. Non sono racconti lunghi, quelli della Jackson, di cui oggi vi faccio sbirciare la prima pagina. Sono però lucidi, cristallini e disarmanti.  La raccolta di oggi prende il nome dal primo racconto ma si potrebbe anche definire come la raccolta dell'orrore della normalità.

E la semplicità di cui sopra si riscontra in racconti, dalle tinte nere, che si svolge in piena luce del giorno. E' un gran talento quello che non deve dipendere dallo scenario per rimanere nel genere e farlo vivere ai suoi lettori. Lo è di più quando questo viene messo al servizio di un racconto e non di un romanzo. Perché il racconto ha regole diverse di gestione dei tempi, non sempre ascrivibili al fatto che siano brevi, ma che sono sempre riferite al fatto che, nel racconto, il ritmo è diverso e la situazione generale è già, per grandi linee, chiara a tutti sin dall'inizio. Serve quindi non poca maestria per nascondere o celare il punto della storia.

Un libro sicuramente da leggere e che, tra parentesi, si legge in un soffio che che è davvero davvero coinvolgente. Sotto i dettagli del libro.
Buona sbirciata e buone letture,
Simona Scravaglieri


LA LOTTERIA 
La mattina del 27 giugno era limpida e assolata, con un bel caldo da piena estate; i fiori sbocciavano a profusione e l'erba era di un verde smagliante. La gente del paese cominciò a radunarsi in piazza, tra l'ufficio postale e la banca, verso le dieci. In certe città, dato il gran numero di abitanti, la lotteria durava due giorni, e bisognava iniziarla il 26 giugno; ma in questo paese, di sole trecento anime all'incirca, bastavano meno di due ore, sicché si poteva cominciare alle dieci del mattino e finire perché i paesani fossero a casa per il pranzo di mezzogiorno.

I primi ad arrivare furono naturalmente i bambini. La scuola era terminata da poco per le vacanze estive, e il senso di libertà dava ai più un certo disagio; tendevano a riunirsi pian piano in crocchi per qualche momento prima di sfrenarsi nel gioco, e parlavano ancora della classe e del maestro, di libri e reprimende. Bobby Martin si era già riempito le tasche [...]

Questa pagina è tratta da:

La lotteria
Shirley Jackson
Edizioni Adelphi, Ed. 2007
Traduzione a cura di Franco Salvadorelli
Collana "Piccola biblioteca Adelphi"
Prezzo 8,00€ 
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