lunedì 4 agosto 2014

[Dal libro che sto leggendo] Quando parlavamo con i morti

Fonte: Libera no domine


Quando parlavamo con i morti, come detto nella recensione, è una raccolta che tratta, attraverso lo strumento del racconto, di questioni civili. E' un po' come se si parlasse di mafia in Italia senza soffermarsi su quei racconti che mettono il dito nelle ferite delle vittime continuando a descriverne particolari su particolari stimolando l'orrore del proprio lettore. Si arriva lo stesso a parlare del tema passando per un'emozione diversa, che però rimane forse in maniera più persistente nella nostra memoria, ovvero la "partecipazione emotiva" o anche "Empatia".

L'empatia non richiede emozioni secondarie che la possano supportare basta da sola. Quindi entrare nel mondo di queste donne che vivono esperienze - come le donne che si danno fuoco per protesta contro il femminicidio o quelle che vedono tornare bimbi spariti o rapiti e quelle che vivono l'esperienza dei desaparecidos vedendo sparire mariti, figli o fratelli - non è difficile ma proprio per questo, il contenuto, non abbandona la memoria di chi legge perché l'empatia fa sì che i concetti rimangano lì e ci permettano di capire che sapore ha la vera indignazione che non è quella che oggi conosciamo.

Un libro veramente intenso da leggere e da rileggere. 
Buone letture e buone ferie,
Simona Scravaglieri


Quando parlavamo con i morti 


A quell’età hai sempre la musica in testa, come se una radio trasmettesse nella nuca, sotto il cranio. Un giorno, questa musica comincia a suonare più bassa, o semplicemente si ferma. Quando ciò succede smetti di essere adolescente. Ma non era neanche lontanamente il caso dell’epoca in cui parlavamo con i morti. Anzi, ai tempi la musica era a tutto volume e suonava come gli Slayer di Reign in Blood.  
Cominciammo con il bicchiere a casa della Polacca, chiuse nella sua stanza. Dovevamo farlo in segreto perché Mara, la sorella della Polacca, aveva paura dei fantasmi e degli spiriti, aveva paura di tutto, bah, era una ragazzina. E dovevamo farlo di giorno, sempre per la sorella in questione e perché la Polacca aveva una famiglia numerosa, tutti andavano a dormire presto, e questa cosa del bicchiere non piaceva a nessuno, perché erano stracattolici, andavano a messa ogni domenica e recitavano il rosario. L’unica che si salvava di quella famiglia era la Polacca: era stata lei a trovare una fantastica tavola ouija, in offerta speciale insieme con alcuni supplementi di magia, stregoneria e fatti inspiegabili che si chiamavano Il Mondo dell’Occulto, si compravano in edicola e si potevano rilegare. La tavola l’avevano già regalata diverse volte insieme ai fascicoli, ma ogni volta era terminata prima che una di noi riuscisse a racimolare i soldi per comprarla. Finché la Polacca non prese la cosa  sul serio, risparmiò, e ci ritrovammo con la nostra preziosa tavola, che aveva i numeri e le lettere grigi, lo sfondo rosso e dei disegni satanici e mistici intorno al disco centrale. Ci riunivamo sempre in cinque: io, Julita, la Pinocchia (la chiamavamo così perché era di legno, la peggio somara a scuola, non perché avesse il naso lungo), la Polacca e Nadia. Fumavamo tutte e cinque, tanto che, quando giocavamo, sembrava che il bicchiere galleggiasse sul fumo e, quando andavamo via, lasciavamo appestata la stanza della Polacca e di sua sorella. Come se non bastasse, quando iniziammo il gioco del bicchiere era inverno e non potevamo aprire le finestre, perché si moriva di freddo. 
Dalila, la madre della Polacca, ci trovò così, avvolte nel fumo e con il bicchiere completamente impazzito, e ci buttò fuori di casa a calci. Riuscii a recuperare la tavoletta (e da allora ce l’ho io) e Julita riuscì a evitare che il bicchiere si rompesse: sarebbe stato un disastro per la povera Polacca e per la sua famiglia, perché il morto con cui stavamo parlando giusto in quel momento sembrava davvero cattivo e ci aveva detto addirittura che non era uno spirito, ci aveva detto che era un angelo caduto. Già allora sapevamo bene che gli spiriti sono dei gran bugiardi e fanno i furbi, e non ci lasciavamo più spaventare dai loro stupidi trucchetti, come indovinare i compleanni o il secondo nome dei nonni. Ci eravamo giurate con il sangue (pungendoci il dito con un ago) che nessuna muoveva il bicchiere, e io mi fidavo. Io non lo muovevo, non l’ho mai mosso, e neanche le mie amiche, ne sono sicura. All’inizio il bicchiere ci metteva un po’ a muoversi, ma quando prendeva il via sembrava che una calamita invisibile lo unisse alle nostre dita, non dovevamo nemmeno toccarlo, non lo spingevamo mai, non ci poggiavamo neanche un po’ il dito: scivolava sui disegni mistici e sulle lettere così rapidamente che, a volte, non facevamo in tempo ad annotare le risposte alle nostre domande (una di noi prendeva sempre nota) sul quaderno speciale che tenevamo apposta. 
Quando quella pazza della madre della Polacca ci scoprì (ci disse che eravamo sataniche e puttane, e parlò coi nostri genitori: fu un casino), dovemmo smettere per un po’ di giocare, poiché era difficile trovare un altro posto.

Questo pezzo è tratto da:

Quando parlavamo con i morti
Mariana Enriquez
Carvan Edizioni, Ed. 2014
Collana "Bagaglio a mano"
Prezzo  9,50€

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